mercoledì 28 dicembre 2011

in ricordo dei sette fratelli Cervi


La famiglia Cervi
Io non ve la posso raccontare, la storia dei fratelli Cervi. Mi prende un nodo alla gola e gli occhi diventano lucidi. Fucilati, tutti e sette, giusto tre giorni dopo il Natale del 1943. Partigiani, certo. Ma prima ancora contadini. Di quei contadini che volevano saper leggere, e scrivere. Per innovare, progredire nel lavoro della terra, nella conduzione delle colture. La famiglia Cervi aveva una biblioteca casalinga.
Babbo Alcide potrà celebrare il funerale dei suoi figli soltanto nell’ottobre del 1945. Le sue parole condensano una vita, e non solo: “Mi hanno sempre detto… tu sei una quercia che ha cresciuto sette rami, e quelli sono stati falciati, e la quercia non è morta… la figura è bella e qualche volta piango… ma guardate il seme, perché la quercia morirà, e non sarà buona nemmeno per il fuoco. Se volete capire la mia famiglia, guardate il seme. Il nostro seme è l’ideale nella testa dell’uomo.” Babbo

Babbo Alcide
Alcide muore nel 1970, a 95 anni. Duecentomila persone andranno a Reggio Emilia per dargli l’ultimo saluto, tra loro anche il Presidente Sandro Pertini che scriverà poi che la storia della famiglia Cervi  è “una testimonianza della perennità dei valori della Resistenza, fondamento del nostro civile consorzio “.
In un dibattito a Porta a Porta, Fausto Bertinotti nominò “Papà Cervi” a Silvio Berlusconi, che rispose: “Io sarò felicissimo di conoscere Papà Cervi a cui va tutta la mia ammirazione”. Al che Bertinotti lo informò: “Papà Cervi purtroppo è morto”.
Io credo che i Fratelli Cervi siano stati uccisi perché avevano una biblioteca e volevano ragionare con la loro testa. L’ignoranza incarna l’oppressione dei despoti che mietono gli uomini liberi con la falce di sicari variamente arruolati e comunque travestiti.

I fratelli Cairoli e mamma Adelaide
Io non credo di riuscire a raccontarvela, la storia dei fratelli Cairoli. Troppo grande per condensarla in poche righe. Una famiglia che ha abbracciato la storia d’Italia e ha fatto la storia d’Italia. Ernesto, morto nel 1859 nella prima guerra d’indipendenza, nelle file dei Cacciatori delle Alpi, al seguito di Garibaldi. Luigi, morto a Cosenza nel 1860, durante la spedizione dei Mille. Enrico, morto a Villa Glori il 23 ottobre 1867, in uno dei tanti gloriosi e disperati tentativi garibaldini di conquistare all’Italia la capitale, sottraendola al potere dei papi. Giovanni, morto due anni dopo per le ferite riportate in quello stesso tentativo. Infine Benedetto, scomparso nel 1889, che partecipò alla spedizione dei Mille, dove fu gravemente ferito, e dopo l’unità d’Italia prese parte alla vita politica, ricoprendo la carica di Presidente della Camera dei Deputati e di Presidente del Consiglio nel 1878 e di nuovo dal 1879 al 1881. Carlo Cairoli, il babbo, era medico e professore di chirurgia all’Università di Pavia. Adelaide, la mamma, era figlia di un prefetto napoleonico di Milano. A lei così scrisse Mazzini, in occasione della morte di Giovanni: “…ma a Voi non importa né ad essi importava di fama. Voi non adorate, essi non adoravano che il fine, quel santo ideale d’una Italia redenta, pura di ogni macchia di servitù e di ogni sozzura d’egoismo e di corruzione, e iniziatrice di forti e grandi pensieri da Roma, che ispirò, attraverso una tradizione di secoli, le nostre migliori anime alla battaglia e al martirio. E però vi dico: sorridete nel pianto, i vostri hanno, morendo, vinto; hanno affrettato d’assai il momento in cui quell’ideale diverrà fatto sulla nostra terra. Stanco dagli anni, dalle infermità e da altro, io ho sentito, all’annunzio della morte del nostro Giovanni, e delle ultime parole ch’ei proferiva, riardere dentro la fiamma dé miei anni giovanili e riconfermarsi in me il proposito della vita. Migliaia di nostri, non ne dubitate, hanno sentito lo stesso. Una intera famiglia non vive non muore come la vostra senza che tutta una generazione si ritempri in essa e muova innanzi d’un passo.


Carlo Rosselli
Nello Rosselli
E non me la sento nemmeno di raccontarvi la storia dei fratelli Rosselli, Carlo e Nello. Siamo negli anni ’20 e ‘30: studi universitari, contatti con intellettuali socialisti e liberali, collaborazioni a fogli e giornali, poi la repressione, il confino, l’esilio. Il 9 giugno 1937, in Francia, a Bagnoles de l’Orne, i due sono uccisi da una squadra di “cagoulards”, miliziani della “Cagoule”, formazione eversiva di destra francese, su mandato dei servizi segreti fascisti e di Galeazzo Ciano. Anche la famiglia Rosselli, sia da parte del babbo, Giuseppe Emanuele, che da parte della mamma, Amelia Pincherle, era stata politicamente attiva, nutrendo ideali repubblicani e partecipando alle vicende del Risorgimento italiano: basti dire che Giuseppe Mazzini era morto nella casa pisana dei Rosselli. Intellettuali? Dunque falciati, trucidati in un agguato. Una dittatura non perdona chi osa metterla in discussione.
Quante storie, e quanto commoventi. Ma in fondo, una storia sola. E’ la storia dell’odio di classe del pensiero unico contro il pensiero libero. Feroce, implacabile. Soprattutto se lo studioso, il cosiddetto intellettuale proviene dalle fila di quelli che il pensiero unico lo hanno abbracciato anima e corpo e si sentono unici depositari della verità. Allora c’è il tradimento, qualcosa di inaccettabile e da punire con severità inaudita. Allora la “cultura” diventa sospetta.
E’ questo l’odio di classe del nostro tempo. Gli studenti, e gli studiosi, stiano a casa. Possibilmente silenziosi. A che serve una biblioteca in una casa di contadini? E tu, giovane di belle speranze, come osi protestare, o peggio ancora riunirti con altri per protestare, con tutto quello che facciamo per te?
Odio di classe. Come altrimenti definire lo spirito che anima quella massa di cialtroni cui ancora oggi, a quarant’anni di distanza, viene ancora l’orticaria a sentir parlare del ’68, e subito perdono le staffe? Mah. Gli dev’essere talmente bruciato, quel movimento spontaneo, che ancora coltivano sentimenti di rivincita, senza nemmeno sospettare di essere patetici. Ma alla Storia ci sono passati quelli che si sono riuniti e hanno protestato nelle piazze, non quelli chestavano nell’ombra a tramare la repressione e che, più verosimilmente, agitano l’armamentario della paura perché terrorizzati dalla possibilità che il seme di quercia di papà Alcide possa ancora attecchire, o che, come scriveva Mazzini, una intera famiglia possa non vivere e non morire senza che tutta una generazione si ritempri in essa e muova innanzi d’un passo.
Risorgere. Resistere. Quale sarà la prossima pagina della nostra storia.
Salvatore Quasimodo –  Ai fratelli Cervi, alla loro Italia – in “Il falso e il vero verde”  (1956)
Ma i padri e le madri sono fatti cosi', adesso lo capisco. Pensano che loro moriranno, che anche il mondo morira', ma che i loro figli non li lasceranno mai, nemmeno dopo la morte, e che staranno sempre a scherzare coi loro bambini, che hanno cresciuto per tanti anni, e che la morte e' un'estranea. Che sa la morte dei nostri sacrifici, dei baci che voi mi avete dati fino a grandi, delle veglie che ho fatto io sui vostri letti, sette figli, ... Visualizza altroche prendono tutta una vita! E tu Gelindo, che eri sempre pronto alla risposta, ora non mi conosci piu' e non mi rispondi? E tu Ettore che nell'erba alta dicevi: "Non ci sono piu'". E tu Aldo, tu cosi' forte e piu' astuto della vita, tu ti sei fatto vincere dalla morte? Maledetta la pieta' e maledetto chi dal cielo mi ha chiuso le orecchie e velati gli occhi, perche' io non capissi, e restassi vivo , al vostro posto! Niente di voi sappiamo piu', negli ultimi momenti, ne' una frase, ne' uno sguardo, ne' un pensiero. Eravate tutti e sette insieme, anche davanti alla morte, e so che vi siete abbracciati, vi siete baciati, e Gelindo prima del fuoco ha urlato: "Voi ci uccidete, ma noi non moriremo mai!" ... Alcide Cervi
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